di Salvo Barbagallo
Apparentemente nessuno sta a considerare la Sicilia nel contesto degli eventi che stanno maturando nell’area del Mediterraneo in vista di una “soluzione” della questione libica. La Sicilia è un “pezzo” d’Italia, quindi non può essere “calcolata” come entità a sé stante, ma solo in “funzione” di ciò che l’Italia (o meglio, chi la governa) avrà concretamente intenzione di fare. E su questo “da fare”, come abbiamo avuto modo di scrivere, gli Stati Uniti d’America, partner propulsivo di una coalizione (con Francia, Gran Bretagna, Germania e quant’altri si aggregheranno) che in nome della lotta all’Isis jiadista vuole porre la parola “fine” alla crisi in Libia, chiedono agli alleati (e in prima istanza all’Italia) di “fare di più”. Cosa fare, se non intervenire militarmente? Le incertezze su un’azione diretta sul territorio africano permangono e, di conseguenza, si viene a determinare una situazione di stallo.
In questa condizione la Sicilia è frontiera, in attesa di trasformarsi in trampolino per qualsiasi intervento si vorrà portare avanti. Una Sicilia già fortemente militarizzata dagli USA, che nelle loro basi autonome programmano e agiscono con i mezzi che hanno a disposizione a Sigonella, a Trapani, ad Augusta. E’ tuttto pronto da tempo e se non fosse per la presenza della Russia nello scacchiere afro-mediterraneo, e se non fosse per le “incertezze” degli stessi componenti la coalizione, “qualcosa” sicuramente sarebbe accaduto da mesi. La Sicilia (o per meglio dire, chi la governa) non è solamente assente nella partita in gioco: è semplicemente “passiva” e “indifferente”: è tutto “estraneo” quel che accade nel suo territorio. In pochi si chiedono il perché, e quei pochi che potrebbero mostrare interesse preferiscono stare in silezio.
Giorni addietro Mariano Graziano su La Voce di New York ha scritto: La sorte dell’intervento militare dei Quattro (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Italia) in Libia è legata a quella del governo di unità nazionale, varato tra sorrisi e abbracci il 17 dicembre scorso sotto l’egida dell’ONU, ma ancora in attesa di essere autorizzato ad insediarsi a Tripoli. Se quel governo non riuscisse a partire, l’intervento militare, si dice, diventerebbe inevitabile per cercare di “pacificare” un paese frantumato in centinaia di tribù, fermare l’ISIS e anche tamponare le ondate migratorie in rotta per l’Europa…
In Libia la “pacificazione” ancora non c’è e, forse, non ci sarà in breve tempo. Mariano Graziano evidenzia: tutti i responsabili americani mettono avanti la necessità e l’urgenza di arginare il rischio terrorista, di impedire la congiunzione delle reti libiche con quelle nigeriane di Boko Haram. Il problema è che “la lotta al terrorismo” è diventata la salsa con cui, da qualche tempo, si cucinano tutti i piatti di politica internazionale (…) Quindi, anche se, nella fattispecie, le preoccupazioni americane sono credibili e fondate, bisogna cercare altre motivazioni. In fondo, vi sono altri santuari del terrorismo internazionale, altrettanto se non più pericolosi di quelli in Libia; ma è in Libia che gli americani si dicono pronti ad intervenire (…).
Gli Stati Uniti d’America vogliono che l’Italia faccia di più: ma l’Italia già sta dando di più. Basti pensare alla “cessione” di parte del territorio siciliano con tutti gli usi che ne vogliono fare… D’altra parte in Sicilia non ci sono “tribù” che hanno interesse a spartirsi il territorio dell’Isola. Nell’Isola ci sono già gli “stranieri” occupanti che comandano. Anche se per interposta persona…